Emotional Breakdown


London >>> Twitter
luglio 3, 2009, 12:05 PM
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Ho scoperto parlando con Adriano che sono troppo vecchio, rincoglionito e prolisso per scrivere qualcosa di sensato su Twitter. Sì, magari va bene per metterci un link, un commentino, qualche gag tra vecchi amici ma non si parla di musica in 160 caratteri. Allora ho aperto un file word, l’ho nominato “boh” e ho iniziato a scrivere. Non so di che, ma devo arrivare a 1600 caratteri, in un modo o nell’altro. Posso farcela, considerando che ho qui con me Adriano come consigliere speciale.
Adesso seriamente, parliamo di musica o almeno di cose che abbiano vagamente a che fare con la musica. Lo scorso weekend metà ebd – aka io e Matteo – è stata a Londra, fondamentalmente per vedere i Brand New e per fare sfrenato shopping musicale.
Il concerto è in una specie di teatro – ci sono i posti in piedi e quelli in platea, seduti. Noi abbiamo due posti seduti. E’ imbarazzante da dire, ma possiamo fornire scuse valide – però sono lunghe da spiegare, magari chiedete a Matteo. Insomma, l’inizio non è dei migliori e per di più ci perdiamo anche i Moneen. Poi inizia a suonare Kevin Devine ed è qualcosa di terrificante. A me Kevin è sempre stato simpatico, nel live di due anni fa aveva aveva pure fatto la cover di My Name Is Jonas che è sempre una bella cosa ma soprattutto tanti tanti anni fa suonava in quel fantastico gruppetto emo-pop-punk, i Miracle of ’86, e aveva pure scritto una canzone spaziale – mi pare si chiamasse Surpise Me o qualcosa del genere – in cui tentava un acuto oltre le proprie possibilità e steccava clamorosamente e io ho sempre pensato che in quei due secondi stesse tutta l’essenza dell’emo. Ma appunto questo era tanti tanti anni fa, adesso Kevin Devin è un abile leccaculo che a forza di lubrificare l’ano di Jesse ha trovato il suo posticino, peccato faccia oggettivamente musica di merda, quaranta minuti di mid-tempo che non è triste, ne malinconica, ne depressa, ne romantica. Quaranta minuti di niente in cui ci siamo ingegnati su come scendere di sotto, davanti al palco. Dopo aver ricevuto almeno una quarantina di sguardi assassini dalla security non appena ci avviciniamo alla balaustra, decidiamo di aspettare per poi buttarci di sotto durante 70×7 e ci andiamo a fare una birra. Torniamo e quattro stronzi ci hanno preso i posti, ognuna delle due ragazze pesa più di me e Matteo messi insieme, decidiamo di lasciar perdere: ci sediamo sulle scale, non faccio nemmeno in tempo a finire la birra e arriva l’omino della security incazzato nero. Non possiamo stare là, ci porta giù. Life si wonderful.
Da qui in poi solo tante belle cose: bel concerto, belle canzoni, bell’atmosfera. Prima tre o quattro pezzi di Deja Entendu, poi tanti pezzi dell’ultimo disco, bis con tanto di 70×7 e via di lacrime. Nel mezzo un paio di pezzi nuovi, uno tendente al capolavoro. Forse è mancato il colpo di genio – come fecero con Welcome to Bankgok in chiusura al Give It A Name – però gran show, niente da dire. Poi se Jesse si togliesse il cappello da puffo una volta nella vita sarebbe ancora meglio.

Momenti da ricordare e persone da ringraziare:

– my brò
– il mistery bag da mezzo pound in cui ho trovato gli Steps
– la bionda due file davanti a noi, mezza nuda. E Matteo che si è accorto della sua presenza solo a fine concerto.
– Joe, il suo big party e la sua vodka. E le big girls al party di Joe.
– uscire sotto il diluvio londinese per far vedere chi ce l’ha più lungo e dopo cinque minuti rendersi conto che sta DAVVERO diluviando e tornare indietro.
– le orientali che piangono quando fanno sesso
– il russo che conferma che le orientali piangono quando fanno sesso
– Size? Yes
– l’italiano davanti a me alla cassa di Starbucks, 4.30 del mattino, aeroporto di Stansted. No, non puoi pagare con la Postepay e no, i due pounds e mezzo che hai tirato fuori ravanando in tasca non bastano per pagare tutta quella roba: levati dal cazzo e grazie per avermi ricordato il paese di merda in cui sto tornando.

Mattia



Quando la nostalgia diventa malattia
aprile 24, 2009, 8:59 am
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Da queste parti abbiamo parlato spesso della nostra infinita nostalgia per gli anni ’90. Ne abbiamo parlato soprattutto riferendoci ai mille mila gruppi emo di quel periodo, dai mostri sacri alle piccole perle dimenticate. Ma la verità è che per quasi tutti noi (il quasi è necessario per via di un elemento dall’infanzia infelice condita da grunge e hit mania dance in parti uguali) il finire degli anni ’90, quelli vissuti in prima persona, sono solo e soltanto la scoperta del punk. I nostri anni ’90 sono una capigliatura che attira un pò l’attenzione, sono quella spilla trasgressiva con una A cerchiata rossa, sono la prima volta in un centro sociale, sono le seghe mentali su come essere sempre più punk, sono la mamma che ti dice di abbassare quel casino che esce dallo stereo. E sono soprattutto Epitaph e le punk-o-rama fatte in casa perchè quelle vere qua a Padova non si trovavano (tranne la numero 3 che forse è pure la migliore).
Io, a dire la verità, ero un bambino un pò speciale (che sarebbe una dicitura tipo diversamente abile) e ho sempre evitato come la peste l’hc melodico: giuro di non aver mai ascoltato un disco dei NOFX o dei Lagwagon. O almeno non in tenerà età quando invece mi sciroppavo cose inennarabili tipo US Bombs e Dropkick Murphys – chissà come sono finito poi a diventare il fighetto con la camicia sempre stirata che sono adesso.
Il fatto è che dopo la folgorazione degli Offspring mi misi a spulciare un pò per la rete e non c’era nessun dubbio che i più punk in circolazione fossero i Rancid: la cresta di Lars e il chiodo di Tim erano oggettivamente imbattibili e questo mi bastava.
Ora, non voglio venirvi a prendere per il culo e dire che all’epoca in cui la mia massima ambizione era toccare le tette della Silvia ascoltavo i Rancid perchè erano bravi. Oppure perchè Matt Freeman è il miglior bassista che io abbia mai sentito o ancora per via del songwriting ricco di svariate influenze o altre pippe intellettuali di questo tipo. Però una cosa la voglio dire: ‘sti quattro stronzi punkettoni hanno infinito più talento di tutta la merda che si ascoltano i ragazzini ribelli/incazzati/emerginati/depressi negli ultimi anni. Ma del tipo che Lars da solo sbaraglierebbe la concorrenza a X-Factor. E non ce l’ho con i ragazzini: probabilmente farei lo stesso nella loro situazione. Dico solo che gente con il talento dei Rancid non ce n’è e considerando che in teoria parliamo di un gruppo di cazzari con la cresta è abbastanza grave come cosa. O strana, almeno.
Seriamente, tolto il primo e l’ultimo non c’è un singolo album che in di tanto in tanto non mi riascolto volentieri, e non soltanto per motivi nostalgici (per dire, se mi fate ascoltare gli Us Bombs adesso mi rovinate la giornata).
Let’s Go è folgorante; And out come the wolves è storia; Life wont wait è spettacolo puro; l’omonimo del 2000 una scheggia impazzita che mi manda ancora fuori di testa.
E poi nascere a Berkeley in California ma con il cuore in Inghilterra è una cosa che mi ha sempre fatto impazzire. Essere punk – punk per davvero, cioè con una giacca in pelle e gli anfibi – dove c’è sempre il sole è diverso. Vale di più. Vuol dire essere doppiamente diversi, doppiamente emarginati, doppiamente incazzati.
Let the California fall in the fucking ocean.

Continuerei per altre due ore a parlare dei Rancid ma in realtà non è questo che volevo fare. Mi sono sono lasciato prendere. In realtà volevo solo dire che se oggi andassi in terza media non saprei davvero che musica ascoltare. Forse mi troverei ad esaltarmi per over quarantenni in pantaloncini che fanno le stesse cose da due decenni solamente sempre peggio. Magari mi comprerei pure i nuovi dischi dei Pulley, dei Not Fun At All, dei Nofx e se mi immagino in queste condizioni mi vengono i brividi.
Molto probabilmente, se fossi in terza media nel 2009, ascolterei della musica di merda e diventerei una persona di merda. Sì, ancora peggio.

p.s. – per quelli che hanno avuto un’infanzia come la mia e non se ne vergognano vi avverto che sta per uscire un nuovo disco dei Rancid. Qua http://www.myspace.com/rancid trovate anche un brano in anteprima. Quando siete soli e non vi vede nessuno cliccate e ascoltate che non è malaccio.



Boy Problems
aprile 21, 2009, 3:59 PM
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Sembra una stupidaggine, ma in effetti a pochi è venuto in mente di suonare come i Cap’n Jazz e di urlare coome i Suis La Lune. L’idea non poteva che venire a dei ragazzi di Philadelfia che dopo una vita passata a fare il verso alla band dei Kinsella e nonostante alcuni risultati niente male – il chitarrista dei Boy Problems suonava anche negli Street Smart Cyclist – si sono resi conto che la voce del Tim adolescente non ce l’ha nessuno. E allora gli arpeggini restano i soliti, l’aria è sempre frizzantina e primaverile, l’istinto rimane quello di seguire la melodia con il ditino che si muove ma al microfono arrivano quegli urletti che fanno sembrare tutto un pò più serio. Come in Good Grief, pezzo stupendo che dimostra che ogni tanto anche i fan dei Kinsella si incazzano.
Tutto quello che hanno fatto lo trovate aggratis sul loro myspace: 2 pezzi in uno split, 4 nell’ep del tour estivo dell’anno scorso. Poi ovviamente si sono sciolti per formare altre 14 band kinselliane: anche a questo proposito trovate tutto sul loro myspace, io mi limito a consigliarvi di non perdere d’occhio i Boys & Sex, una specie di reincarnazione dei Boy Problems.

http://www.myspace.com/boyproblemsphilly



Una triste adolescenza postuma priva degli Honor System
aprile 3, 2009, 9:50 am
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Oggi parlavo con un amico degli Honor System. Un amico un pò speciale per tanti motivi, uno su tutti il fatto è che sta attraversando la sua adolescenza con 6 o 7 anni di ritardo. In pratica è un ometto lauerato e ben avviato nella sua carriera di business man che ha scoperto solo ora il punk rock, lo skate, i tatuaggi, il basket, la birra, le Chesterfield e il sesso promiscuo. Ovviamente lo invidio a morte e penso un pò tutti vuoi. Pensatevi tra un paio d’anni a resettare tutto e ricominciare tutto il divertimento da capo, scoprire il punk rock e tutto il resto. Io darei volentieri un braccio in cambio ma comunque non centra nulla. Tutto questo era solo per far capire il tipo: un ragazzo infoiato con il punk rock che ha già ascoltato anche i gruppi post-Lawrence Arms. Però quando gli ho nominato gli Honor System lui m’ha fatto una faccia del tipo “saranno mica uno di quei gruppetti da fighette frigide che ti ascolti te?”. Ma proprio no. Gli Honor System sono uno di quei gruppi che il nostro amico avrebbe dovuto ascoltare quando era davvero adolescente (esordio per Asian Man data 2000) e sono figli d’arte del primo nucleo della Chicago punk rock.
Poi sinceramente io non sono abbastanza bravo per descrivere il milionesimo disco punk rock senza stracciarvi le palle, quindi vi dico giusto primi Jawbreaker, Lawrence Arms&co, al mio amico sono piaciuti. Fidatevi (di me, non del mio amico che di musica ci capisce poco).



Grain
ottobre 30, 2008, 12:19 am
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Io non lo so perchè i Grain non se li ricorda nessuno. Forse sarà per il nome. Cinque lettere, per di più banali. Non abbastanza per evitare di essere inghiottiti dagli anni che passano, dalle mode che cambiano e da internet che avanza. Soprattutto da internet. Provate voi a googlare il nome Grain. Di tutto e di più vi salta fuori, ma notizie su una band emo di metà anni ’90 nemmeno a parlarne (per inciso tutto ciò conferma parzialmente una mia teoria esposta più di qualche post addietro: se i Grain avessero scelto un nome migliore ora sarebbere nel cuore di ogni buon emo kid).
In sostanza o siete abbastanza sfigati da frequentare questo blog, oppure resterete ignoranti per sempre.
Comunque pare che loro fossero della Florida, addirittura di Gainesville – giuro che se scopro che fine hanno fatto vi faccio un fischio – attivi dal 1994 al 1995. Sì insomma, solita band emo durata una ventina di mesi, un paio di 7” e uno split (con gli Harriet the Spy, mica male). Solo che questi Grain cagano in testa a tutti, o quasi. Il 7” omonimo del ’94 è qualcosa di immenso, intenso come poche altre cose e con due pezzi – Homestead e Hickory – da incorniciare.
Non so bene perchè ma li associo sempre agli Indian Summer. In realtà non ci assomigliano molto. Però ce le avete presente tutte quelle parti strumentali? Ecco, immaginatele molto più tirate, molto più hardcore e rumorose, meno dilatate e più rabbiose e un pò vi avvicinate ai Grain. La voce poi è qualcosa che mi stende ogni volta: se ne salta fuori strillando e lamentandosi con le chitarre che la ricacciano indietro. E lei continua a biascicare quella melodia che ti manda in estasi.
A me ‘sti gruppi mi fanno morire.

http://www.mediafire.com/download.php?0ggjtmkn0hj

Mattia



Flowers of Discipline

Washington, DC. La metà degli anni ’80, una scena musicale che diventa mito, più di quanto non lo sia già: nel febbraio del 1985 i Rites Of Spring mettono al mondo qualcosa che assomiglia molto all’emo. A seguire vengono Embrace, One Last Wish e Moss Icon: tutto in pochi mesi, in pochi chilometri. Una manciata di band che diventano leggenda, qualche ragazzo che diventa eroe e quel nome altisonante – Revolution Summer – a suggellare l’epopea.
Tutto giusto per carità, tutto pienamente condiviso anche dal sottoscritto – Ian MacKaye è il mio Superman, gli Embrace la mia Justice League – ma forse non rende bene l’idea di cosa sia davvero successo in quel periodo.
La pagina di Wikipedia – ecco, diciamo non il massimo della vita se volete capirne di più – inizia con: Revolution Summer refers to the metamorphosis of the punk rock community in the summer of 1985. Cambia un modo di fare e di pensare e quel cambiamento ovviamente ci piace parecchio. Un cambiamento che non riguarda solo quei quattro o cinque nomi che si fanno in ogni occasione – dalla pagina di wikipedia allo speciale che trovate sulle riviste in edicola passando per lo stronzo di turno che ti spiega cos’è l’emo in qualche forum – ma tutta una scena. E allora quasi quasi sarebbe giusto andarli a ripescare i protagonisti – perchè protagonisti lo sono stati tutti per davvero – di questa scena. Magari non tutti, ma qualcuno sì: quelli a cui sono più affezionato e che ricordo con più piacere.
A cominciare dai Flowers of Discipline, ad esempio, rivoluzionari estivi autori di un 7” omonimo nei primi mesi del 1986. Uscì per TeenBeat Records e pure qua se ne potrebbe parlare per mesi: etichetta indipendente fondata nel 1985 da Mark Robinson degli Unrest che ha accudito per anni il nascituro indie-rock della costa atlantica e rimasta attiva fino agli anni ’90, insomma un altro mito caduto in rovina e dimenticato come pure sono andati per lo più dimenticati i Flowers of Discpline, loro che miti non lo sono mai stati, ma un gruppo favoloso quello sì.
Si presentano con na voce particolare, forse non per tutti i gusti con quel suo cantato-recitato che comunque non è proprio nuovo dalle parti di Washington, e un raro buon gusto per la melodia che te li fanno digerire sin dal primo ascolto.
Scrivono canzoni come fossero puzzle con tutte le tessere da incastrare al posto giusto, suonano le chitarre in un modo che mi fa andare completamente fuori di testa: agili ed eleaborate, di una raffinatezza rara, illuminanti nel saper rendere ogni brano imprevedibile e stupefacente. Capaci di cambiare umore ogni quindici secondi, mille volte nel correre di cinque canzoni. Una più bella dell’altra.

http://www.mediafire.com/download.php?dnxdyyowi55

Mattia



This Is Punk Rock and I’m telling everyone (2) – Young Hearts
settembre 26, 2008, 6:47 PM
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Gli Young Hearts sono l’ennesimo gruppetto punk rock formato da vecchie conoscenze che non deludono le attese. Attese che a dir la verità questa voltà non è che fossero granchè alte: il cantane Chip viene da Saturday Supercade, band pop-punk niente male che non si è mai filata nessuno; altri due dai Dear Tonight, formazione piuttosto particolare di cui nessuno da queste parti sente la mancanza.
Il risultato invece è un buon ripasso su cosa sia il pop-punk moderno, cioè qualcosa di piuttosto differente da Fall Out Boy e dai Green Day dell’era dell’eyeliner, ma che si avvicina molto a primi Latterman (nettamente i migliori), Loved Ones e Bouncing Souls. Quattro pezzi belli tirati ed energici, con Backs To It che ti fa cantare a squarciagola. E per di più produzione perfetta per un ep autoprodotto e da scaricare aggratisse.
Tra le altre cose suoneranno pure al The Fest: ok che ci suona mezzo mondo, però è pur sempre un motivo in più per volerci andare. Uno tra duecentocinqua, diciamo.

http://www.youngheartsmusic.com

Mattia



Alcune cose che mi va di scrivere
settembre 23, 2008, 10:09 am
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Sinceramente non so se sia molto emo fumare, sono molto combattutto a riguardo. Ricordo ancora Jon Bunch che aspirava la sua Marlboro tra un verso dei Sense Field e uno dei Further Seems Forever e da quel momento il dubbio mi ha assalito. Quando sono tornato a casa ho anche controllato su Fourfa, ma Andy a questo proposito non si sbilancia.
Fortuna che sono arrivati i Saddest Landscape a toglierci ogni dubbio: fumare è assolutamente emo a patto che si usi lo Zippo in edizione limitata: http://www.alonerecords.com/mailorder/mailorder.php
Matteo – uno che nei suoi anni di gioventù era una sorta di straight edge non dichiarato – ovviamente non ha resistito e oramai si sta togliendo mesi su mesi di vita al ritmo di un pacchetto al giorno.
Da parte mia vi consiglio di investire i vostri soldi in maniera migliore, seguite il mio esempio:

Se invece state cercando un futile passatempo, ne ho giusto uno da consigliarvi.
Non ho mai seguito tutte queste telenovele di cronaca nera che fanno emozionare mezza Italia. Non ho il minimo rispetto nemmeno per Lucarelli e i suoi misteri fitti e intricati. Però sotto consiglio di un amico mi sono informato un pò sul caso di Perugia, quello dell’omicidio della studentessa inglese. Fidatevi, fate altrettanto.
Non che ci sia qualcosa di interessante sul chi ha amazzato chi e perchè l’ha fatto, ma le perle che ci regala il nostro giornalismo da casalinghe disperate sono pressocchè inesauribili.
Ora, secondo Laura Lorenzi di Repubblica, il punto della questione sarebbero i gusti musicali dell’imputata Amanda. La quale, mentre la corte è riunita, canta sottovoce la musica punk di Leslie Feist. Testuali parole.
Per chi non lo sapesse Feist saebbe questa qua sotto:

E la sua musica punk la potete ascoltare qua: http://www.myspace.com/feist. Attenti ad abbassare il volume, mi raccomando. E non fatevi traviare il cervello: niente sacrifici di sangue e riti satanici vari.

Insomma, a ‘sto punto diciamo pure che Disney Channel è il covo del black metal e Hannah Montana la nuova Burzum.
Tra l’altro non avrei mai detto che l’insopportabile Hannah sarebbe diventata una sedicenne di tali seducenti fattezze: gran singolo, gran video, gran pucchiacca.
Continua così Hannah.

Mattia



Sorry
settembre 18, 2008, 7:13 PM
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I Sorry sono il gruppo ideale per farsi un’idea dei confini di quella terra di nessuno che sono gli anni ’80 per il punk/hardcore, quel marasma indefinito di fermenti che racchiude in sè – seppur in forma embrionale – buona parte della musica oggi genericamente definita indie: i Sorry vengono dopo l’hardcore e il punk, prima delle mille correnti successive – emo, shoegaze, post-rock, lo-fi, noise, grunge e via all’infinito. Potrebbero essere un pò tutto questo messo assieme – come tanti loro compagni d’avventura di quegli anni – e volendo pastrocchiare con i suffissi potrebbero essere post- un sacco di cose e proto- un sacco di altre cose: successori e precursori, così com’è nel normale corso delle cose, ma in un modo tutto loro che neppure a posteriori, a venticinque anni di distanza, è possibile racchiudere in definizioni.
Ancora scottati dalla morte del punk e dalla sua risurrezione sotto la forma hardcore, i Sorry vogliono al tempo stesso perfezionare e distruggere la forma canzone punk: si fanno così ricettori senza filtri dell’insegnamento dei Minutemen, innovatori e sperimentatori quasi senza accorgersene: difficile capire dove finisca la consapevolezza in ciò che fanno. Di certo non passava inosservata una band hardcore – o perlomeno così definita e a tutti gli effetti facente parte di quella scena – con un sassofonista in formazione, ma la spontaneità con cui i Sorry tentano quasi ad ogni brano nuove soluzioni, sempre fuori sincrono, è qualcosa che ha ben poco a che fare con la razionalità, è puro istinto e passione. Si sente il piacere di suonare qualcosa di diverso, un piacere che forse è persino necessità, un bisogno personale, esistenziale. I Sorry non cercano un’identità musicale, ma qualcosa di più: distruggono tutto il conosciuto, tutto ciò che rientra nella normalità per ritrovarsi protagonisti in mezzo al vuoto, finalmente artefici della propria musica, capaci di manipolare qualcosa di esistente. Tutto quello che non riuscivano ad essere nell’America di Reagan, specialmente a Boston, uno dei fulcri del disagio giovanile americano, la stessa metropoli asfissiante che stuzziccherà la ribellione sonora di Slapshot e Converge, giusto per fare due nomi.
Tutto questo succede nel 1982 ma già l’anno prima il chitarrista David Kleiler e il bassista Chuck Hahn, ancora giovanissimi, formano un trio di new wave psicotica e sperimentale, gli Origin of Species. Mostrano già ammirazione per il nuovo che avanza degli scantinati americani, assaporano con gusto il rumore della Grande Mela, non si lasciano sfuggire il delirio annichilente della no wave – è qui che imparano il fascino di un sax oltraggiato nel rock profano. Sono ragazzini, ma fanno sul serio: idee chiare e progetti concreti, coraggio, inventiva. Il trio si sfalda in breve tempo: il ragazzo della loro età – tra i diciasette e i diciotto – che completa la formazione è troppo sbronzo e troppo incapace per fare le cose sul serio e l’incontro con Jon Easley è l’occasione buona per ricominciare da zero. Jon è carismatico ed eccentrico e sa cantare bene: nascono i Sorry con Andy Berstein alla batteria, già conosciuto ai tempi degli Origin Of Species, e Nate Bowditch al sax.
E’ il 1982, dicevamo, ovvero l’anno dell’orgoglio hardcore di Boston con l’uscita della storica compilation This Is Boston, Not L.A.; Washington D.C. è lì vicina e stanno succedendo delle cose mica da poco; i Minutemen hanno da poco esordito e la SST lavora a pieno regime. I Sorry sono là in mezzo, dentro un pentolone che sta per esplodere: bolle musica nuova, dirompente, vitale. Sapranno dire la loro con due album di indubbio valore, Imaginary Friend del 1984 e The Way It Is del 1986. Il primo dei due forse uno dei dischi “hardcore” più ingiustamente dimenticati.
Il 1986 è anche l’anno del definitivo scioglimento: David e Chuck formerano i Volcano Suns, band di maggior fortuna mediatica e che sostanzialmente non è altro che la meta definitiva della ricerca sonora dei Sorry; Jason finirà nei Burn per poi lasciarci per sempre nel 1988.
Da riscoprire e ricordare.

http://www.mediafire.com/download.php?sztl7lqycsy

Mattia dopo un attacco di logorrea



This is punk rock and i’m telling everyone (1) – Iron Chic

Una rubrichetta tutta nuova e piccola piccola per parlare del punk rock che ci piace: gruppi giovani, esordienti ed aitanti. Magari ogni tanto anche qualche vecchietto che non si fila più nessuno ma che ai giovani d’oggi fa un mazzo così.
Insomma, se scoviamo i nuovi Jawbreaker o i nuovi Descendents vi avvertiamo qua. Promesso.

Inauguriamo questo spazio nel modo più banale possibile, vale a dire con il più folgorante e apprezzato punk rock di questi ultimi mesi. Esatto, il demo degli Iron Chic. Personalmente lo sto consumando da più di un mese e immagino che più di qualcuno stia facendo altrettanto. Per i pochi che ancora non ne sanno nulla loro sono una delle mille band del post-Latterman con l’aggiunta speciale di un ex Small Arms Dealer. A capire cosa suonano ci arrivate da soli – punk rock melodico, direi molto melodico, qualche strisciata di emo-punk, i nomi di riferimento i soliti – e che lo facciano divinamente è altrettanto ovvio. Non c’è molto altro da dire insomma, se non che il demo si può anche scaricare liberamente dal sito: cinque brani, due capolavori e tre belli belli. Decidete voi quali.
Non si sa ancora se e quando uscirà il disco, ma se sarà bello quanto questo demo allora i Latterman han fatto proprio bene a sciogliersi.

Qua trovate il primo demo: http://www.ironchic.net

Qua qualche altro pezzo da ascoltare: http://www.myspace.com/ironchicsmyspace

Mattia



Un emo-kid in pericolo tra birra, bettole e garage punk
settembre 1, 2008, 2:28 PM
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Per una buona volta proviamo letteralmente a cagare fuori dal vaso e ci addentriamo in zone pericolose per dei poveri nerd con facce da bravi ragazzi come noi: punk primitivo, garage, rock’n’roll selvaggio e zozzerie assortite. Bossifondi in cui se provi a girare munito di frangetta e stelline hai vita breve. E difatti è solo una piccola parentesi: da domani torneremo al nostro posto, chiusi in cameretta ad ascoltare gli Evergreen e ai piangerci addosso. Intanto, se vi va, fateci sapere che ne pensate di questa piccola divagazione:

Jay Reatard è uno deil nuovi folletti del garage-punk americano, mattatore della sporcizia rock’n’roll da ormai un decennio. Tra i tanti progetti – quasi una decina le band cui ha preso parte – a consacrarlo sono The Reatards e Lost Sounds, ma ormai è arrivato il momento di dare spazio alla carriera solista con un full lenght maestoso su In The Red due anni fa e ben quattro 7” lo scorso anno. In The Dark sono tre brani messi insieme per Sqooodge Records: la title track è il pezzo forte, un tripudio di ritmi beat tinto di wave da un synth indiavolato. Searching For You è un cazzeggio di pop lo-fi, con uno sgangherato riff di chitarra che soffoca la voce strascicata di Jay; Hunting You un saluto innocente, una filastrocca per bambini ritardati non molto incisiva. Ma la pronta conferma che il nostro è ancora in ottima forma ci arriva dallo split con i conterranei (di Memphis, Tennessee) Boston Chinks in compagnia dei quali ha girato mezzo mondo, Italia compresa. La sua Let It All Go è un singolo micidiale dal ritmo indiavolato, guidato dal solito synth e un ritornello da mandare fuori di testa: praticamente perfetta e uno dei suoi pezzi migliori in assoluto.

I Boston Chinks invece vanno subito al sodo con molta meno grazia: sguaiati ed irruenti, suonano un punk veloce e melodico, sporcato appeno di striscio dal suono garage. Niente per cui strapparsi i capelli ma sono giovani, hanno un bel suono, ottimo compromesso tra incazzatura e voglia di divertirsi: piacevoli.

http://www.mediafire.com/download.php?q4bqulmhxd4

http://www.mediafire.com/download.php?aanixeizzl3

Il singoletto Spiders And Their Kin degli Human Eye è invece semplicemente imperdibile: un occasione per ribadire come l’amore per certa musica porti facilmente a quello stato di beautidine che è insanità mentale. Un guazzabuglio di punk cafone, viscido e scotennato, new wave cupissima e post-industriale, visioni psichedeliche, synth disturbati e disturbanti e una particolare predilizione per l’orrido e lo scabroso: la title track si perde per quattro minuti e mezzo di angosciante ossessione rumorosa, cluadicante, qualcosa di pericoloso, qualcosa che sai ti farà del male ma di cui hai bisogno come l’aria. Desperete hands inizia con bordate elettriche per svolgersi in un’accellerazione schizofrenica senza capo ne coda fino a ritrovarsi in una cantilena psichedelica scandita con enfasi da Timmy Vulgar. Geniali è dir poco.

Se non li conoscete affatto vedete di recuperare alla velocità della luce l’esordio: un’illuminazione psicotica che qualcuno ha osato chiamare art-punk. Art manco per il cazzo, punk come nessuno al giorno d’oggi.

http://www.mediafire.com/download.php?endxsfpykds

 

Niente di meglio per ritrovare il sorriso – e anche un pò di normalità – che i canadesi Tranzmitors, ovvero power pop, Buzzcocks e Undertones. Basta leggere i titoli dei due brani presenti – Teenage Tragedy e Invisible Girl, buona soprattutto la prima – per capire che aria tira: il loro registro preferito è quello del cazzeggio giovanile nel quale non stentiamo a riconoscerci appieno. Niente di stellare, ma qualcosa che si ascolta sempre volentieri.

http://www.mediafire.com/download.php?40nguiz40nv

Le cose non cambiano molto con lo split tra Live Fast Die e Vcr, anche se in questo caso il suono si fa decisamente più cazzuto: i primi tengono fede al proprio nome, mettono insieme due brani in meno di tre minuti di primordiale punk americano sparato a velocità folle come dei Ramones presi a calci in culo da Henry Rollins, mentre in controluce si intuisce la presenza dei Devo ad ammiccare compiaciuti. I secondi (non confondeteli con gli omonimi su SideOneDummy) invece sono giovani, semi-esordienti e promettono scintille: pop-punk lo-fi con voce scoglionata che convince, specialmente nell’orecchiabilissima Christmas Calculator.

http://www.mediafire.com/download.php?uqlxh3cirmg

Mattia



Gaslight Anthem
agosto 29, 2008, 1:40 PM
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No Idea non è soltanto una casa discografica, è prima di tutto un suono, uno stile inconfondibile. E i Gaslight Anthem sono probabilmente una delle migliori band No Idea che non sta sotto No Idea. Il che vuol dire anche che sono uno dei migliori gruppi punk rock del momento anche perchè i nostri eroi sembrano proprio belli caldi: l’anno scorso il debutto Sink or Swim, una bomba che ancora deve passarmi la voglia di ascoltarla; quest’anno un ep e il secondo album. Per capire di cosa stiamo parlando prendete gli Against Me! e sostituite alla svolta rock-imbolsita di New Wave una svolta rock-cazzuta-e-irresistibile. In pratica, quello che non è riuscito agli Against Me! è riuscito ai Gaslight Anthem e, come per chiudere il cerchio, succede che la band di Tom Gabel chiede ai ragazzini esordienti di venire in tour con loro. Finisce con una non troppo imprevedibile inversione dei ruoli: i maestri faticano a riscaldare i vecchi fan delusi dal passaggio su major, i novellini invece impartirscono lezioni di punk rock agli astanti.
Il fatto è che i Gaslight Anthem hanno qualcosa di più – o meglio: di diverso – per poter fare dignitosamente quella famosa svolta rock: hanno uno spirito blues marcio, da rocker di New Orleans, sono impregnati di folk-rock, di soul, di America più di quanto non lo siano tutti i loro colleghi. E infatti nel nuovo The ’59 Sound si permettono di rallentare ancor di più i ritmi e non perdere nulla in carica ed esplosività: coinvolgenti e travolgenti allo stesso modo, anche con il freno a mano tirato, perchè l’energia dei Gaslight Anthem non è qualcosa che dipende esclusivamente da quanto veloce suonano o da quanto alzano il volume degli amplificatori o di quanto urlano nel microfono. La senti che ti trascina via e questo è tutto.
Avrei voluto aggiungere che ci scommetterei dei soldi che diventeranno un nome davvero davvero grosso. Ieri però sono passato in edicola e li ho visti in copertina su Kerrang!: lo sono già, un nome grosso. E se lo meritano.

Mattia



When the summer ends: Hanalei
agosto 27, 2008, 10:36 PM
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L’hanno fatto tutti, tocca farlo pure a me. La storia dei dischi estivi, intendo. Magari farlo alla terza settimana di agosto non è esattamente quel che di dice un intervento tempestivo, ma tant’è: prendetelo come il consiglio estivo definitivo ed eventualmente riciclatelo per le belle stagioni a venire.

Hanalei è un paesino – ma proprio piccolo piccolo – dell’isola di Kauai, arcipelago della Hawaii. Che sarebbe quella in foto, cioè dove Brian Moss – beato lui – passava le vacanze da bambino. E proprio a quel posto tutto spiaggie, acqua turchese e collane di fiori ha pensato il ragazzo di Chicago quando ha deciso di prendersi una pausa dai The Ghost – emo/post-punk dissonante di gran qualità – e dedicarsi tutto solo a qualcosa di più intimo ma anche e soprattutto di più semplice, fresco, solare. Più estivo.
Gli è riuscito e non bene, di più. We Are All Natural Disaster è il primo tentativo, datato 2004, subito un centro pieno. Un disco delicato ed equilibrato, pop in abbondanza e malinconico quanto basta. C’è un pò tutto dei dischi indie/emo che adoravamo in quegli anni: quelli di Matranga, quelli dei Death Cab For Cutie e quelli dei Weakerthans. E poi il 2003 era stato l’anno dei Postal Service e qui si sente, eccome se si sente: qua e là spuntano tappeti di loop elettronici che ti fanno pensare a quante volte hai ascoltato qualche anno fa Give Up. Proprio come questo esordio degli Hanalei, disco che ho consumato e che continuo ad adorare: Asbury Ashes e Beacon in The Distance – tanto per dirne due – sono dei pezzi immensi. Canzoni da viaggio di ritorno, zeppe di ricordi e nostalgia.
Ci spostiamo in avanti di due anni e scopriamo che molte cose sono cambiate: i The Ghost non esistono più e Brian si trova impegnato a tempo pieno con il progetto Hanalei che da side-project solista diventa band vera e propria. Il secondo album si dimentica di effetti elettronici e compagnia bella e punta tutto su brani che più catchy di così non si può: più alt. country che mai, ora semi acustici ora più tirati ed elettrici, sempre melodici ed irresistbili. Più maturo e più immediato al tempo stesso, di certo meno malinconico.
Buona fine estate con gli Hanalei.

http://www.myspace.com/hanaleisounds
qui trovate le solite cose, ma anche un paio di video niente male e i demo delle nuove canzoni. Giusto per prendersi in anticipo per la prossima estate.

http://www.mediafire.com/download.php?u2qdkpkrnib
qui i primi due dischi

Mattia



LaGrecia
agosto 22, 2008, 10:58 PM
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Jason Shevchuck è uno dei tanti piccoli grandi eroi del punk/hardcore americano. Magari il nome non vi dice nulla, ma sicuramente ci avete avuto a che fare qualche volte senza neppure accorgevene – mentre capeggiava i Kid Dynamite o i None More Black, ad esempio – e probabilmente avete anche apprezzato l’incontro inconsapevole.
L’ultima esperienza di Jason sono questi LaGrecia, una piacevole parentesi già chiusa che ha fruttato un album su Suburban Home uscito recentemente. E appena inizia a suonare On Parallels la voce, quella la si riconosce subito, ma tutto il resto non tanto. I LaGrecia vanno più lenti, molto più lenti di qualunque cosa abbia mai suonato Jason. Ma non è solo questo: sono proprio diversi. Meno hardcore, più punk rock. Punk rock a modo loro, molto mid-tempo e rockeggiante, melodico e coinvolgente. Un pò alla maniera dei Gaslight Anthem volendo, ma più ruvidi e sfacciati. Ma più che altro mi sembra di sentire il buon punk rock di casa Jade Tree – Avail e The Loved Ones in particolare – secondo la personale interpretazione di Mr. Shevchuck. Che non è affatto male.

http://www.mediafire.com/?ifz3oy2ctnd

Mattia



Alkaline Trio
agosto 1, 2008, 9:27 am
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Gli Alkaline Trio sono un’altra di quelle band che ci piace tanto e da tanto tempo. Se volevi del buon punk-rock melodico agli inizi del Duemila semplicemente non c’era niente di meglio dei loro primi tre dischi e la cosa buffa è che non c’è tuttora. E per forza di cosa gli Alkaline Trio continuano a piacerci tanto, nonostante tutto: perchè Good Mourning sembrava l’inizio di una fine poco decorosa , Crimson è stato la gloriosa rinascita e Agony And Irony si fa rispettare pur perdendo qualche colpo. Tra alti e bassi, quello sì, ma sempre lontani anni luce dallo sputtanamento definitivo: mentre aspetti il loro nuovo disco nemmeno ti passa per la testa che Skiba&co si siano bevuti il cervello e inizino a fare puttanate tipo urlettini sparsi qua e là o altre pacchianerie simili. L’unica cosa a cui pensi è quante canzoni perfette alla loro maniera riusciranno a mettere insieme questa volta. Ve lo dico io, almeno quatro: Calling All Skeletons, I Found Away, Do You Wanna Know? e Into The Night. Il resto del disco mantiene il decoro a parte un paio di episodi, tipo il ritornello un pò idiota di Love Love, Kiss Kiss che poi ovviamente ti ritrovi ogni volta a canticchiarlo.
Per stavolta insomma tocca un pò accontentarsi e non fare troppo i preziosi. In alternativa, nel frattempo, per i più nostalgici – come me – è uscita per Asian Man la ristampa dell’esordio Goddamnit. Il disco sapete già che razza di capolavoro sia. Ora aggiungeteci pure una confezione ben curata, un dvd spettacolare con interviste, live show e tutto il resto, quattro bonus track, un booklet con scritti di Brendan Kelly (Lawrence Arms) e Mike Park. E quest’ultimo che scrive: “just know that Goddamnit is the best record by the best band in the world. For those who disagree, i’m sorry to say you’re wrong.”
Beh, anche se siete wrong vedete di prendervi ‘sta chicca che fidatevi vi procurerà orgasmi multipli.

Mattia